Almeno fino al 1968 – anno in cui la crisi della guerra del Vietnam mise in discussione la legittimità e il senso dell’intervento armato – gli USA hanno continuato a rappresentare un modello culturale e di società con il quale il resto del mondo è stato costretto, volente o nolente, a misurarsi. Sia pure in modi diversi, questa situazione di dipendenza continua ancora oggi; gli USA rappresentano tuttora, seppure in modo meno evidente, il cuore delle contraddizioni del mercato, l’area nella quale i modelli, le strategie, le potenzialità e le pecche del sistema del capitale rappresentano le loro crisi e ne offrono effetti e misura a tutto il mondo. Insomma, un laboratorio a cielo aperto nel quale si è scritta parte essenziale della storia della modernità, una storia per certi versi già conclusa, sostituita da elementi e sistemi che fanno della loro perenne mutazione la nuova regola del gioco, sistemi i quali non definiscono più un centro, bensì solo nodi temporanei di una rete di comunicazione che non si sa da dove inizi e non si sa dove finisce. Oggi, dunque, l’instabilità – peraltro con un suo indiscutibile fascino, soprattutto per studiosi di economia politica ed esperti della comunicazione, ma anche per gli artisti – del sistema del quale gli USA continuano ad essere il maggiore rappresentante ha privato di un “centro” l’immensa area del cosiddetto Occidente post-industriale, restituendo problemi e quesiti all’area della cosiddetta globalizzazione, che – come noto – vive e trae senso dalla costante temporaneità dei fenomeni. Non così negli anni Cinquanta del Novecento, evidentemente, anni nei quali il “modello fordista” non denunciava ancora la sua crisi e dove capitalismo e la sua diretta filiazione, il consumismo, erano nel pieno della loro vitalità. Dunque, gli USA potevano – in quegli anni – ancora rappresentare un test per il mercato, un’area perfettamente attrezzata nella quale mettere alla prova esperimenti (economici, sociali, politici e quindi artistici) e aspettare che producessero effetti stabili e duraturi, ovvero la conquista di un potenziale mercato di consumatori. Per gli artisti, come nel nostro caso, si trattava dunque non già della Vecchia Europa – ancora inginocchiata dagli effetti della Guerra Mondiale – ma di una chance nuova, una terra dove tutto il nuovo poteva essere sperimentato. Per Aliza Mandel gli USA rappresentarono – pur affatto cercati, ma scelti come chance possibile – l’identico magnete che attirò tanti altri colleghi; per essere più precisi – perché resti chiaro, come ai più, che “USA” non significa “New York” – è stata proprio la capitale culturale degli Stati Uniti, unitamente a Santa Fe, a rappresentare l’organismo con il quale tentare di intrecciare un dialogo e dare forma finita alla propria proposta artistica.
Mandel abbandona un lavoro sicuro alla RAI; è il 1959 e quella che sarebbe diventata – nel bene e nel male – la più importante industria culturale italiana non la attira affatto; reputata da molti “un paradiso”, per Mandel si tratta “solo di un ufficio”.
Ce n’è abbastanza dunque per scegliere di varcare l’oceano e – grazie all’ottenimento di una borsa di studio – fare rotta su Boston. Si imbarca a Napoli sulla “Independent” e affronta il viaggio di una settimana. A bordo fa la conoscenza con il cugino dello scrittore Carlo Levi il quale le consiglia di stabilirsi direttamente a New York, della quale conosce il valore delle scuole d’arte. Dunque, Mandel arriva a New York “un’impressione stupenda, si arriva all’aurora; lo skyline di Manhattan con i suoi grattacieli illuminati e le finestre che man mano si spengolo. E poi, la Statua della Libertà…” e – grazie ad un contatto con vecchi amici di famiglia alloggia nella zona residenziale di Manhattan, sopra Mid Town, nel cosiddetto “Vierte Reich”, così era chiamato il quartiere che ospitava famiglie di ebrei tedeschi. Dal 1959 al 1961 frequenta dunque il Brooklyn Museum Art School, dove inizia ad approfondire il contatto con l’arte contemporanea: è durante questo periodo che prende l’importante decisione di dedicarsi all’arte liturgica. Gli inizi nuovayorkesi di Mandel sono dedicati alla ricerca di un appartamento e alla necessità di guadagnare. Sugli annunci del NY Times trova il primo lavoro: dà lezioni di italiano, per un certo periodo, ad un uomo di affari che “voleva esportare la pizza americana in Italia”.
Concludendo il primo anno – valutando positivamente il suo lavoro – le consigliano di provare ad andare a insegnare ad un importante “summer camp”; l’occasione è rappresentata dalla cittadina di Neaples (Maine), nella quale “su un bel lago, in mezzo ai boschi”, insegna scultura e ceramica per due mesi. Tornata a New York affitta un “loft” come studio in Bleecker Street, nel Village e “dopo due anni passati senza soldi” ha finalmente uno studio tutto suo. Trova un lavoro presso lo studio dell’architetto Brother Cajetan J. Bauman disegna e fa bozzetti per sculture; sono di questo periodo, per il St. John Vianney Seminary di Buffalo NY un San Francesco in bronzo, un mosaico, l’altare principale e la facciata della chiesa. Ma poiché “time is money”, Mandel, che in quel momento lavora per Brother Catejan, non può godere di uno stipendio fisso in quanto la lunga attesa per il pagamento delle commissioni non consente il pagamento di un compenso settimanale. Per ovviare a ciò, apre un suo studio per essere direttamente in contatto con i clienti. Lavora anche come insegnante presso una scuola elementare maschile cattolica-laica, nella quale studiano figli di facoltose famiglie (vi studiava anche il figlio del presidente John F. Kennedy, John-John). Successivamente, lasciato l’insegnamento, apre uno studio nel Village, lo “Studio Gallery” in Groove Street, una via nella quale “avvenivamo diversi delitti”; lo studio di Mandel serve addirittura alla polizia per tenere sotto osservazione i movimenti sospetti nella casa, nella quale era appena stato commesso un delitto.
E’ di questo periodo (1964) la realizzazione di un “Risen Christ” in bronzo per la St. John Evangelist Church di Philadelphia, Penna. La realizzazione del Cristo avviene a Pietrasanta, in Toscana, dove Mandel si era recata su desiderio dei committenti. Centrale, nell’esperienza sia artistica che umana, nella vita di Mandel è l’avvio della “messa degli artisti”. La “messa degli artisti” era già stata fondata in Europa grazie all’interessamento di monsignor Ennio Francia, del quale Mandel è buona amica; a Roma, ad esempio, pare che l’idea sia stata proprio del maestro della pittura metafisica Giorgio De Chirico. A New York sono i gesuiti per primi ad interessarsi al progetto e forse avrebbero voluto ascriversene il merito, ma più di loro sostenne l’idea il cappellano dell’università di New York; il primo incontro si svolge in una chiesa ancora in costruzione. E’ il 1967 e lavorando presso la ditta Rembusch, che realizza, tra l’altro, anche arredi per interni per chiese, fa diverse sculture: sono di questo periodo lavori per Maria Regina Convent, Long Island, St. Patrick Sisters’ Chapel, Staten Island e Mount Saviour Benedectine Monastery, New York. Mandel, coltiva moltissimi interessi in fatto di religioni e spiritualità. La tensione dell’artista verso i temi della trascendenza è una costante di tutta la sua vita. Se essi si riversano, seppure in parte – comunque importante – nella sua proposta artistica, definiscono anche la scansione della sua vita privata; la continua ricerca, l’essere nella continua ricerca di una dimensione spirituale, la portano a scegliere anche forme di vita monastica. Tutto ciò, nei ricordi di Mandel, è un dialogo scaturito, prima del trasferimento negli USA, in un convento della Foresta Nera, nel quale la madre priora, donna molto colta e – si diceva – addirittura ex principessa russa, risponde così al desiderio dell’artista di prendere i voti monastici: “prima si affermi nel mondo!”.
L’episodio, come Mandel riporta, era frutto dell’”entusiasmo del neofita”. Al Mount Saviour Benedectine Monastery Mandel si reca per provare la vita dell’eremitaggio: tre periodi successivi, per testare la capacità del neofita, si susseguono. Il primo di 40 giorni e due successivi di due mesi ciascuno nei quali, nella sua qualità di artista, Mandel collabora con il monaco “artista” del monastero. Lavoro e preghiera, ma nello stesso tempo anche l’occasione di riflettere approfonditamente sulle religioni e soprattutto ricercando una, sia pur ardua, sintesi tra le stesse: induismo, taoismo, buddismo, ebraismo e cristianesimo si intrecciano nel fitto dialogo, non solo interiore, che Mandel esercita su se stessa. Vale la pena ricordare una “cerimonia del tè” – propria della filosofia zen – che l’artista ha coltivato per molti anni ed esegue nel monastero alla presenza di un monaco di origine tedesca il quale alla fine commenta: “noi occidentali siamo proprio dei barbari!”. Tale deve essere stato l’approfondimento spirituale di Mandel nel monastero che il priore si aspetta addirittura che essa dia vita ad una fondazione religiosa. Alla domanda sul perché Mandel non si decida, essa risponde “aspetto un segno”, al che il priore le rispose “i segni sono ovunque, basta riconoscerli!”.
Aderisce poi al Clergy Volunteer Program presso gli istituti di pena Tombs Prison e Bellevue Hospital Prison e si dedica all’insegnamento dell’arte ai carcerati; esperienza anch’essa fondamentale, consente a Mandel di venire in contatto con realtà difficili delle quali approfondisce il tratto umano.
Con quattro carcerati, in attesa di imminente scarcerazione, che lavorano nel monastero dove Mandel risiede, partecipa ad uno dei primi simposi dedicati all’apertura tra diverse religioni: la presenza di questi carcerati al simposio – i quali recitano un testo fortemente critico nei confronti dell’ambiente religioso – accompagnati, anzi voluti da Mandel, crea scandalo tra le fila dei diversi religiosi presenti.
Max Carbone